Digressione

15.1 – Siamo quasi tutti sostituibili

Passiamo la vita a convincerci che sia unici, coi nostri pregi e i nostri difetti, un’irripetibile alchimia di geni combinati a caso (o quasi) da una legge della natura che favorisce la diversificazione.

Passano la vita a farci credere che siamo unici, insostituibili. Lo fa la tua famiglia, da quando sei nato, da quando hai cominciato a rompere le palle ponendoti quelle domande a cui nessuno sa rispondere, e l’unica risposta che ti viene data è che sei unico, insostituibile, irripetibile e devi andarne orgoglioso. Lo fa la tua amica, o il tuo amico del cuore, quando dice che nulla avrebbe senso se tu non fossi al suo fianco. Lo fanno i tuoi amici, quando ti ringraziano dell’energia e dell’allegria che sembrano muovere il mondo. Lo fa il tuo compagno o la tua compagna quando affermano che sei la persona che hanno sempre cercato, che a te regaleranno la loro vita.

E tu alla fine ci credi. Ti senti unico, insostituibile.

Gli unici che ti dicono la verità, sono i colleghi sul posto di lavoro. Loro si, loro ti dicono che ognuno di noi è sostituibile, come i bulloni di un ingranaggio. Basta avere sufficiente tempo. Basta cercare abbastanza bene. Ed è buffo, perché forse l’unico posto dove non siamo davvero sostituibili è il nostro lavoro, perché è difficile rimpiazzare quel bagaglio di conoscenze e di savoir faire che ti porti dietro giorno per giorno e che ti giochi tutti i giorni sulla tua piccola scrivania.

Poi, vivendo, ti accorgi che la vita ti da torto. Ti accorgi di essere sostituibile. La tua amica del cuore, nel giro di poco avrà qualche altra persona con cui condividere il mondo, i tuoi amici – se ti allontani – avranno un altro centro di energia, il tuo compagno regalerà la sua vita ad altra persona. E’ semplicemente così, è la vita. Siamo facilmente rimpiazzabili, e contro ogni aspettativa, siamo rimpiazzabili in pochissimo tempo.

D’altra parte anche noi sostituiamo e rimpiazziamo persone di continuo: amici, amori, colleghi, conoscenti. Le persone non sono altro che piccole meteore che ci attraversano la vita velocemente, lasciandosi dietro, al più, un po’ di polvere.

Ultimamente, incontro gente. Per ogni persona che incontro questa rimpiazza qualcuno che ha fatto parte della mia vita e  so che a sua volta, prima o poi, verrà rimpiazzata da un’altra. Dopo relativamente poco tempo il ricordo diventerà fumoso e si perderà tanto da non ricordarmi più neppure quale fosse il suo nome. Sarà semplicemente ricoperta da un’altro volto che occuperà quello stesso ruolo.

Questo avviene quasi sempre. Poi… poi sbatti in qualcuno che non è sostituibile. Qualcuno per cui non c’è un clone abbastanza simile. O forse quel clone ci sarebbe stato prima delle cicatrici, prima delle botte e dei lividi. Perché sono le cicatrici che rendono alcuni individui unici e riconoscibili dal branco, esattamente come avviene per le balene.

E quando si incontra una balena, bisognerebbe tenerla ben fuori dalla propria vita, non dargli un ruolo, neppur minimale, perché se lo fai, il giorno che le strade si separeranno e verrai facilmente sostituito, sarai destinato a sentirne in eterno l’assenza, una piccola piaga inguaribile sul tallone dell’anima. Un piccolissimo dolore che ad ogni passo ti ricorderà che hai perso davvero qualcosa.  E poco importa se hai perso qualcosa di bello o di brutto, resta quella piccola fitta di angoscia per aver diminuito la biodiversità del tuo personalissimo universo.

You are not special. You’re not a beautiful and unique snowflake. You’re the same decaying organic matter as everything else. We’re all part of the same compost heap. We’re all singing, all dancing crap of the world. (Chuck PalahniukFight Club)

Digressione

15 – Luis Vuitton e la mantide

Al baretto quasi sotto casa non ci vado quasi mai, quasi più. Nella mia vita precedente ci andavo spesso e tra quelle quattro mura ho fatto più di un’amicizia, amici che ho lasciato indietro, come quel luogo. Ma l’altra sera mi è saltata la serata, mi è saltata tardi per recuperarla e ormai ero nei paraggi…

quindi con quello stesso spirito con cui si sfoglia un album di foto ricordi, mi sono recata al bar a prendere un aperitivo.

Come previsto al bar ho trovato qualche vecchio amico, e qualcheduno nuovo. Sono stropicciati come me. Hanno una vita più o meno caotica, più o meno in ricostruzione e si barcameno tra il sonno arretrato, l’alcol, e qualche avventura. Buffa combricca di post-adolescenti un po’ attempati disillusi dalla vita e cinicamente romantici.

Avevamo una vita, progetti, piani, una volta. Poi è volato tutto per aria, a chi in un modo a chi nell’altro. E ora viviamo alla giornata come moscerini della frutta. Niente progetti, niente futuro, ma si, tanta vita, ma proprio tanta (quanta non ne avevi neanche a vent’anni).

Così tra racconti della fine del mondo, gin/vodka & tonic, prese per i fondelli e discussioni pseudo lavorative si finisce sempre lì… sulle disquisizioni in merito all’amore e ai suoi massimi sistemi.

L’amore è una cosa strana. Anche quando ha leso la tua fiducia, ti ha smontato la vita e rivoltato come un calzino, ancora in qualche modo ci credi e ancora lo cerchi. O meglio lo cerchi e non lo cerchi, soprattutto ne parli, perché finché ti limiti a parlarne davanti a un drink non può più ferirti (e quanta paura abbiamo che ci dilani la carne di nuovo). Così ognuno ognuno vomita il suo cinismo e la sua disillusione in merito. Ognuno ammette che no, non riuscirà a fidarsi mai più, e promette che mai, mai più, farà progetti che includano un altra persona nella loro vita. “Mai”, “mai più”, sono parole inutili, abusate, esattamente come quel “sempre”, “per sempre” in cui hai creduto a suo tempo, e che ti ha lasciato a piedi in autostrada sotto la pioggia. In verità siamo tutti alle porte, che aspettiamo qualcuno che abbia la forza, il coraggio e la voglia di divelgere quello spillone di ghiaccio emotivo che ci tiene inchiodati al muro come farfalle imbalsamate e che ci faccia riprendere a volare alti, noi, la nostra vita, i nostri progetti. Ma ci vuole la persona giusta, e il coraggio di un leone, e la forza di un aeroplano.

C’è chi vorrebbe un partner il cui concetto più complesso sia parlare della borsa di ‘Louis Vuitton’. Ne ha avuto abbastanza di uscite intellettuali e radical chic ai workshop sui libri, ai cinema d’essai, ai café chantant e compagnia bella. Troppa fatica, troppa finzione, troppa artificialità. Allora tanto vale uscire rilassati, parlando di Louis Vuitton. A 40anni non hai davvero più bisogno di giocare all’eterno duello di chi sia più affascinante o più intelligente. Se sei affascinante lo sai, e sai se sei intelligente. Non hai bisogno di conferme.

C’è chi sogna il toy boy, o le toy girl. Guarda quei fisici statuari nonostante l’overdose di alcool e di pigrizia e se li sogna nel letto tutta notte. Guarda e sogna, poi che abbia o non abbia l’occasione viene annichilito dal terrore del post-coito. Si perché un uomo o una donna può dire quello che vuole prima. Gli ormoni fanno passare tutto in secondo piano. Il problema é il dopo, quando i tuoi ormoni grossi come pony sono andati a dormire e tu rischi di realizzare davvero che ti sei portato a letto un adolescente, con interessi e maturità da adolescente. Allora o ti suicidi per la vergogna o uccidi lui / lei per mantenere il segreto. Un’ardua scelta.

C’è chi perde del tempo con una qualche semi-storia impossibile. E ci mette del tempo proprio perché è impossibile. Finita a priori, morta senza avere la possibilità di vivere. L’avventura più sicura del mondo. Sai che non ci puoi scommettere nulla, sai già come finirà, sai già che la persona dall’altra parte è messa come o peggio di te. Sentimenti a redini corte, vincoli pochi o nulla, tanta vita e zero futuro. Distillato di disillusione pura per disillusi hard core.

In ogni caso, le persone normali le fuggiamo con cura.

C’era un tempo che i miei occhi
non vedevano che te,
c’era un tempo che dormivi accanto a me
senza pensare io credevo tu potessi dedicare
la tua vita solo a me.
Eri bellissima,
quando mi amavi.

Non ho mai capito bene
come fosse cominciato,
so soltanto che sei tu che l’hai voluto,
certo però, non era un caso tu volessi far cambiare
questa vita ch’era in me.
Non ti bastavano
le mie canzoni.

Dicevi che l’amore
è una strada senza uscita,
ho spostato le frecce ai crocicchi della vita;
la strada si distende
e mi porta ad andar via
non c’è posto per l’amore nel tuo mondo di magia.

C’era un tempo che parlavi
della forza del destino,
degli ostacoli che getta sul cammino,
ma io non ho creduto alle leggende che tuo nonno
ti cantava intorno al fuoco;
non sono stato al giuoco,
non ho accettato.

(Bertoli – C’era un tempo)

 

Digressione

14 – di foto e di altre tragedie

Ho sempre amato disegnare, e quando è cominciato a mancarmi il tempo materiale per farlo, ho cominciato a fare foto. Migliaia di foto. Foto su foto nel tentativo assurdo di bloccare i momenti nella mia visione di essi, a perenne memoria del fremito, della sensazione del momento. Ho hard disk pieni di foto strane, sbilenche, stranite. Istantanee del mio sguardo buffo sul mondo. Molte non le ho neppure processate, molte non le ho neanche scaricate e giacciono in qualche rullino o in qualche scheda SD.

Poi capita che le riguardi, per masochismo, oppure semplicemente perché ti saltano addosso da dietro l’angolo di un file. E, assieme a loro, ti saltano addosso tutte le sensazioni e le impressioni di quel momento e tutte quelle che si sono concatenate ad esse nel tempo.

Così ritrovi quel primo piano scattato a pranzo in un inizio giugno salentino assolato e deserto. Quando il compagno di turno aveva lo sguardo ebete e lucido di chi è davvero felice e sta provando a sognare forte. Il sogno lo vedi ancora, cristallizzato lì, tra pupilla e l’iride. La foto lo ha congelato, e ne è rimasta la sindone, benché il sogno si sia corrotto e decomposto nel tempo.

E altre facce, altri progetti, e altri sogni. Altri cadaveri decomposti e polverizzati nel vento. Altri sentimenti, sensazioni, colori inchiodati nel tempo, finché il supporto non si consumerà. Ho così tanti fantasmi in agguato nel mio laptop che al confronto la lettura di Edgar Allan Poe risulterebbe una fiaba per fare addormentare i bambini la sera.

Non faccio più foto. Ho chiuso.

 

 

Citazione

13.1 – per il tuo compleanno

per il tuo compleanno ti ho regalato due poesie con lo stesso emblematico nome (Se…):

  • una l’ho trovata per caso che penzolava spersa sul muro di un ufficio.
  • l’altra venne regalata a me in un lontano giugno dell’88 del secolo scorso

Che ti siano buone compagne di strada, come lo sono state per me.

IF (Rudyard Kipling)

If you can keep your head when all about you
Are losing theirs and blaming it on you;
If you can trust yourself when all men doubt you,
But make allowance for their doubting too:
If you can wait and not be tired by waiting,
Or being lied about, don’t deal in lies,
Or being hated, don’t give way to hating,
And yet don’t look too good, nor talk too wise;

If you can dream—and not make dreams your master;
If you can think—and not make thoughts your aim,
If you can meet with Triumph and Disaster
And treat those two impostors just the same:
If you can bear to hear the truth you’ve spoken
Twisted by knaves to make a trap for fools,
Or watch the things you gave your life to, broken,
And stoop and build ‘em up with worn-out tools;

If you can make one heap of all your winnings
And risk it on one turn of pitch-and-toss,
And lose, and start again at your beginnings
And never breathe a word about your loss:
If you can force your heart and nerve and sinew
To serve your turn long after they are gone,
And so hold on when there is nothing in you
Except the Will which says to them: “Hold on!”

If you can talk with crowds and keep your virtue,
Or walk with Kings—nor lose the common touch,
If neither foes nor loving friends can hurt you,
If all men count with you, but none too much:
If you can fill the unforgiving minute
With sixty seconds’ worth of distance run,
Yours is the Earth and everything that’s in it,
And—which is more—you’ll be a Man, my son!

IF (Douglas Malloch)

If you can’t be a pine on the top of the hill,
Be a scrub in the valley – but be
The best little scrub by the side of the rill;
Be a bush if you can’t be a tree.

If you can’t be a bush be a bit of the grass,
And some highway happier make;
If you can’t be a muskie, then just be a bass –
But the liveliest bass in the lake!

We can’t all be captains, we’ve got to be crew,
There’s something for all of us here,
There’s big work to do, and there’s lesser to do,
And the task you must do is the near.

If you can’t be a highway then just be a trail,
If you can’t be the sun be a star;
It isn’t by size that you win or you fail –
Be the best of whatever you are!

Fai buon viaggio, e buona vita.

Stato

13 – Istantanee di una felicità a termine (1)

Fa molto caldo a Bologna. E’ normale d’estate. L’aria ristagna, l’umidità risale dai canali sotterranei e il terreno bolle, per la mancanza di verde, tra le vie strette. E’ una giornata d’inferno, una delle tante di questa terra.

Nel cuore della notte aspetto il lunedì sdraiata su un letto. La finestra spalancata a cercare di far circolare un po’ d’aria mi lascia intravedere il cielo, tra le case. Con gli occhi socchiusi, tengo per mano la mia felicità che – affianco a me – dorme e sogna, con respiro leggero.

Poi scoppia il temporale e i lampi, come fuochi d’artificio improvvisati,  illuminano i tetti.

Se tutte le stelle del mondo
a un certo momento
venissero giu’
tutta una serie di astri
di polvere bianca scaricata dal cielo
ma il cielo senza i suoi occhi
non brillerebbe piu’

(Lucio Dalla – Felicità)

Stato

12.2 – Nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino.

Nella mia nuova vita faccio cose e vedo gente.

L’altro giorno ero a buttar via la serata in centro a Bologna con una amica. Aperitivo, ri-aperitivo e giro in giro sotto i portici del centro. Finché non è stata ora di tornare a casa. In quel momento la matrice ha cominciato a cambiare.

Via Santo Stefano si è girata di 180 gradi, e ci siamo trovate a Porta Santo Stefano anziché in direzione centro.

Poi abbiamo imboccato avventatamente vi Castiglione e notato l’errore, cartina e google maps alla mano abbiamo fatto dietro front…

imboccando via Farini in senso sbagliato e ritrovandoci di nuovo in Via Santo Stefano, praticamente al punto di partenza.

Al che, dopo ennesima consultazione di mappe e google maps, fatto l’opportuno dietro front ho imposto un autobus… almeno lui sa dove va.

Strano ma vero, siamo entrambe arrivate – dopo aver praticamente percorso tutta Bologna – felicemente a casa.

Saranno stati gli aperitivi, i discorsi leggiadri in materia di lavoro, amori, fecondazione e amici… sarà stato che lei è a Bologna da due mesi e io sono morta da tre anni, ma… cavolo, perdersi a Bologna e non ritrovare più la strada di casa nonostante una cartina e google maps è roba degna di un altro mondo.

 Girando ancora un poco ho incontrato uno che si era perduto
gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino
mi guarda con la faccia un pò stravolta e mi dice “sono di Berlino”.

Lucio Dalla – Disperato Erotico Stomp

Digressione

12.1 – Siediti e aspetta poi alzati e va’

A diciott’anni ho passato un estate in montagna in compagnia di mia nonna. Lei leggeva libri sotto l’ombrellone sull’ampio terrazzo che è stato il teatro di gran parte della mia vita alpestre, io, all’ombra del muro, tentavo inutilmente di studiare fisica. Non avevamo un bel rapporto io e la fisica. A tutt’ora, non siamo diventate amiche.

In quelle lunghe giornate di giugno, tra studio, cavalli e scorrazzate a perdifiato su e giù per la valle, ho conosciuto mia nonna. Era una donna ormai stanca degli anni, rigida e austera a cui la vita aveva riservato più di una cattiva sorpresa. Eppure era ancora solida e decisa, una donna forte. Mi raccontava di una madre (mia bisnonna) fredda e distante al limite del crudele, delle zie che amava molto, del suo lavoro di tintrice di bottoni, degli amati fratelli morti, entrambi in guerra. E mi raccontava di mio nonno, Amerigo, morto quando era ancora troppo giovane e con due figli adolescenti da crescere. Con la morte di mio nonno, i ricordi si fermavano, anche se la vita era continuata a lungo. Ricordo la luce e il sorriso che aveva quando mi raccontava del suo Amerigo, che io non ho mai conosciuto.

Era una donna strana mia nonna, un po’ ruvida (da buona piemontese) e con probabilmente tanti sentimenti sotto quell’armatura di metallo che si portava appresso. Forse un po’ mi somigliava, forse un po’ somiglio io a lei. Anche a me dicono che sono strana, strana e buffa, sicuramente non austera.

Un giorno, tornando da cavallo, trovai un biglietto sulla scrivania, in bella luce. Aprii la busta, e lessi le poche righe scritte con la calligrafia un po’ stentata dei vecchi:

E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta.

Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore.

Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta.

Avevo letto il libro e sinceramente l’avevo odiato. L’avevo trovato melenso, stucchevole e infinitamente uterino. Presi il biglietto, ne archiviai il senso attribuendolo a un rigurgito di sentimentalismo di una vecchia stanca e lo usai come segnalibro per gli studi.

Quel biglietto, negli anni, è diventato il ricordo simbolico di mia nonna, della donna che avevo conosciuto il quel periodo. Della persona che guardava con tolleranza e divertimento quella nipote troppo viva e troppo energica che percorreva il mondo come un tifone, di corsa, senza guardare cosa lasciava indietro.

Qualche mese fa ho preso quel biglietto tra le mani, lo ho aperto e riletto, dopo 21 anni. Sull’altro lato, che non avevo mai voltato, ho trovato poche parole

Il giorno in cui dovrai fare una scelta difficile siediti e aspetta. Poi alzati, vai e non ti voltare indietro.

Mi sono seduta. Ho aspettato dei mesi. Poi mi sono alzata e ho preso la mia strada, senza voltarmi.

Si dice che i morti continuino a vegliare sui loro cari chissà come.

Citazione

12 – dialogo immaginario alla fermata dell’autobus

<<Fermati. Fermati e guardami.

Esci, per una volta, esci da quel beffardo succede. Appoggia l’armatura sul muro, togliti anche la cotta di maglia, e smetti, per un attimo di scherzare.

Raccontami come, com’è stato il giorno in cui il mondo ti è esploso in mano. Quando hai dovuto sederti per terra, perché le ginocchia tremavano troppo. Quando il cuore è impazzito e il fiato, tra i denti stretti tanto da scricchiolare, si è spezzato. Quando hai stretto forte le palpebre sui tuoi occhi cangianti per fermare le lacrime, perché oramai sei grande, perché sei sempre stato un pilastro. E i pilastri non piangono, neanche quando si schiantano al suolo e si sbriciolano in migliaia di frammenti.

Raccontami di quella telefonata, che hai fatto, quando il cervello ha cominciato a girare in tondo, attorno alla poltiglia di carne e sangue che un giorno chiamavi anima. Quante volte hai chiesto – urlando come un animale ferito a morte – perché, incapace di capire?

Raccontami dei pensieri che sono stati l’eco dei tuoi passi la notte. Dimmi della rabbia che ti ha fatto slogare i polsi sui muri e della paura che ti ha inchiodato ad un pilastro incapace di muoverti, del tormento della mente che non ha rallentato mai  lasciandoti insonne per giorni. Spiegami. Raccontami dell’inumana fatica del primo passo che hai mosso dopo l’atomica, e di tutti quelli seguenti, che continui a mettere.>>

<<Non sono stati giorni diversi dai tuoi. Succede a tutti. >>

<<E poi?>>

– Poi passa. Passa tutto prima o poi.

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PS: Questo articolo è rimasto tra tastiera e rete per molto tempo, è ora di lasciarlo libero.

Stato

11.2 – un posto da chiamare casa

Prendo il treno, l’ennesimo treno, tra Bologna e Torino. Ho un progetto nella testa e l’anima in gola. Vado a riprendermi casa mia. Gli inquilini sono tornati al paesello e, chiavi nella borsa, io ritorno a casa.

Ho passato quasi tutti i giorni, dall’inizio di quest’anno a smantellare strutture. Prima di costruire, prima di ricostruire, bisogna fare tabula rasa della vita precedente. Distruggi e smantella. Smembra i sogni, cancella i ricordi, azzera le aspettative, togli i sentimenti dalle pareti. Annulla, imbianca, spersonalizza. Restano una manciata di foto in un album da qualche parte, e resta qualche oggetto orfano, dimenticato e abbandonato a se stesso. Brandelli di una vita passata, senza più significato alcuno.

Oggi salendo sul treno, ho deciso di cominciare a ricostruire. Non sono più in fuga da una realtà troppo invadente e troppo scomoda. Ho abbandonato quella fuga a rotta di collo che avevo cominciato a inizio Aprile, chiedendo disperatamente di tornare a Torino. Oggi, salendo sul treno porto nello zaino il primo mattoncino e dello spazio libero, pronto per nuove avventure.

Torino mi accoglie tiepida e vagamente nuvola, quel suo abbraccio un po’ inospitale e un po’ scontroso che noi torinesi amiamo tanto e ci portiamo addosso (e ci scambiamo spesso). Passo da casa dei miei a prendere i miei quattro stracci e mi avvio lenta, con la musica nelle orecchie verso il portone di casa. Ad ogni passo lascio in dietro un pensiero, della ruggine, della polvere. Sotto il portone di casa, lo zaino col computer e lo spumante, e la borsa con il cellulare e le chiavi sono finalmente l’unico bagaglio che mi porto appresso, esternamente e internamente.

Apro il portone, la portina interna e rincorro la mia anima su per le scale. Davanti alla porta resto a fissare il mio cognome sul campanello. Lo guardo bene, per ricordarmi bene chi sono, chi c’è sotto queste lentiggini e sotto questi occhi cangianti. Infilo le chiavi ed entro.

Mi accoglie quell’eternità che appartiene alle case di inizio secolo scorso: l’odore del legno di faggio, il vago sentore di umido dei muri spessi, il fruscio dei tubi dell’acqua a vista, la luce dorata e abbagliante che entra dalle altissime finestre, il crepitio lieve del parquet flottante. Abbandono il poco bagaglio inspirando a pieni polmoni e mi lascio cadere a peso morto, ad angelo, in centro alla sala. Con gli occhi chiusi, come un novello Ulisse sulla spiaggia di Itaca, s respiro l’odore di casa.

E dopo molto, troppo, tempo una felicità irrequieta e danzante si mischia al sangue e trotterella allegra giù dalle arterie e su per le vene. Senza pensieri e coi piedi leggeri la vita è finalmente luccicante e facile. Stappo il mio spumante rosé me ne godo un bicchiere e invito poi qualcuno a finire il resto. La felicità ha un odore più buono se c’è qualcuno – magari a sua insaputa – che ne condivide un pezzo. Nessuna delusione, nessun tradimento, nessuna pugnalata al mondo mi farà mai ricredere in merito.

Ho nuovamente un posto, un posto senza ricordi, da chiamare casa. Un attaccapanni dietro alla porta dove lasciare le scarpe e appendere l’armatura e la cotta di maglia. Pochi metri quadri dove poter lasciare correre liberi e nudi i brandelli d’anima superstiti.

(Ho avuto alcuni compagni di viaggio in questi metri. Non tutti si sono accorti della strada, della fatica o delle buche. Devo loro una birra, se non hanno già avuto lo spumante.)

C’è un principio d’ironia
Nel tenere coccolati
I pensieri più segreti
E trovarli già svelati
E a parlare ero io
Sono io che li ho prestati

(Elisa – gli ostacoli del cuore)