Digressione

12.1 – Siediti e aspetta poi alzati e va’

A diciott’anni ho passato un estate in montagna in compagnia di mia nonna. Lei leggeva libri sotto l’ombrellone sull’ampio terrazzo che è stato il teatro di gran parte della mia vita alpestre, io, all’ombra del muro, tentavo inutilmente di studiare fisica. Non avevamo un bel rapporto io e la fisica. A tutt’ora, non siamo diventate amiche.

In quelle lunghe giornate di giugno, tra studio, cavalli e scorrazzate a perdifiato su e giù per la valle, ho conosciuto mia nonna. Era una donna ormai stanca degli anni, rigida e austera a cui la vita aveva riservato più di una cattiva sorpresa. Eppure era ancora solida e decisa, una donna forte. Mi raccontava di una madre (mia bisnonna) fredda e distante al limite del crudele, delle zie che amava molto, del suo lavoro di tintrice di bottoni, degli amati fratelli morti, entrambi in guerra. E mi raccontava di mio nonno, Amerigo, morto quando era ancora troppo giovane e con due figli adolescenti da crescere. Con la morte di mio nonno, i ricordi si fermavano, anche se la vita era continuata a lungo. Ricordo la luce e il sorriso che aveva quando mi raccontava del suo Amerigo, che io non ho mai conosciuto.

Era una donna strana mia nonna, un po’ ruvida (da buona piemontese) e con probabilmente tanti sentimenti sotto quell’armatura di metallo che si portava appresso. Forse un po’ mi somigliava, forse un po’ somiglio io a lei. Anche a me dicono che sono strana, strana e buffa, sicuramente non austera.

Un giorno, tornando da cavallo, trovai un biglietto sulla scrivania, in bella luce. Aprii la busta, e lessi le poche righe scritte con la calligrafia un po’ stentata dei vecchi:

E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta.

Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore.

Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta.

Avevo letto il libro e sinceramente l’avevo odiato. L’avevo trovato melenso, stucchevole e infinitamente uterino. Presi il biglietto, ne archiviai il senso attribuendolo a un rigurgito di sentimentalismo di una vecchia stanca e lo usai come segnalibro per gli studi.

Quel biglietto, negli anni, è diventato il ricordo simbolico di mia nonna, della donna che avevo conosciuto il quel periodo. Della persona che guardava con tolleranza e divertimento quella nipote troppo viva e troppo energica che percorreva il mondo come un tifone, di corsa, senza guardare cosa lasciava indietro.

Qualche mese fa ho preso quel biglietto tra le mani, lo ho aperto e riletto, dopo 21 anni. Sull’altro lato, che non avevo mai voltato, ho trovato poche parole

Il giorno in cui dovrai fare una scelta difficile siediti e aspetta. Poi alzati, vai e non ti voltare indietro.

Mi sono seduta. Ho aspettato dei mesi. Poi mi sono alzata e ho preso la mia strada, senza voltarmi.

Si dice che i morti continuino a vegliare sui loro cari chissà come.

Citazione

12 – dialogo immaginario alla fermata dell’autobus

<<Fermati. Fermati e guardami.

Esci, per una volta, esci da quel beffardo succede. Appoggia l’armatura sul muro, togliti anche la cotta di maglia, e smetti, per un attimo di scherzare.

Raccontami come, com’è stato il giorno in cui il mondo ti è esploso in mano. Quando hai dovuto sederti per terra, perché le ginocchia tremavano troppo. Quando il cuore è impazzito e il fiato, tra i denti stretti tanto da scricchiolare, si è spezzato. Quando hai stretto forte le palpebre sui tuoi occhi cangianti per fermare le lacrime, perché oramai sei grande, perché sei sempre stato un pilastro. E i pilastri non piangono, neanche quando si schiantano al suolo e si sbriciolano in migliaia di frammenti.

Raccontami di quella telefonata, che hai fatto, quando il cervello ha cominciato a girare in tondo, attorno alla poltiglia di carne e sangue che un giorno chiamavi anima. Quante volte hai chiesto – urlando come un animale ferito a morte – perché, incapace di capire?

Raccontami dei pensieri che sono stati l’eco dei tuoi passi la notte. Dimmi della rabbia che ti ha fatto slogare i polsi sui muri e della paura che ti ha inchiodato ad un pilastro incapace di muoverti, del tormento della mente che non ha rallentato mai  lasciandoti insonne per giorni. Spiegami. Raccontami dell’inumana fatica del primo passo che hai mosso dopo l’atomica, e di tutti quelli seguenti, che continui a mettere.>>

<<Non sono stati giorni diversi dai tuoi. Succede a tutti. >>

<<E poi?>>

– Poi passa. Passa tutto prima o poi.

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PS: Questo articolo è rimasto tra tastiera e rete per molto tempo, è ora di lasciarlo libero.

Stato

11.2 – un posto da chiamare casa

Prendo il treno, l’ennesimo treno, tra Bologna e Torino. Ho un progetto nella testa e l’anima in gola. Vado a riprendermi casa mia. Gli inquilini sono tornati al paesello e, chiavi nella borsa, io ritorno a casa.

Ho passato quasi tutti i giorni, dall’inizio di quest’anno a smantellare strutture. Prima di costruire, prima di ricostruire, bisogna fare tabula rasa della vita precedente. Distruggi e smantella. Smembra i sogni, cancella i ricordi, azzera le aspettative, togli i sentimenti dalle pareti. Annulla, imbianca, spersonalizza. Restano una manciata di foto in un album da qualche parte, e resta qualche oggetto orfano, dimenticato e abbandonato a se stesso. Brandelli di una vita passata, senza più significato alcuno.

Oggi salendo sul treno, ho deciso di cominciare a ricostruire. Non sono più in fuga da una realtà troppo invadente e troppo scomoda. Ho abbandonato quella fuga a rotta di collo che avevo cominciato a inizio Aprile, chiedendo disperatamente di tornare a Torino. Oggi, salendo sul treno porto nello zaino il primo mattoncino e dello spazio libero, pronto per nuove avventure.

Torino mi accoglie tiepida e vagamente nuvola, quel suo abbraccio un po’ inospitale e un po’ scontroso che noi torinesi amiamo tanto e ci portiamo addosso (e ci scambiamo spesso). Passo da casa dei miei a prendere i miei quattro stracci e mi avvio lenta, con la musica nelle orecchie verso il portone di casa. Ad ogni passo lascio in dietro un pensiero, della ruggine, della polvere. Sotto il portone di casa, lo zaino col computer e lo spumante, e la borsa con il cellulare e le chiavi sono finalmente l’unico bagaglio che mi porto appresso, esternamente e internamente.

Apro il portone, la portina interna e rincorro la mia anima su per le scale. Davanti alla porta resto a fissare il mio cognome sul campanello. Lo guardo bene, per ricordarmi bene chi sono, chi c’è sotto queste lentiggini e sotto questi occhi cangianti. Infilo le chiavi ed entro.

Mi accoglie quell’eternità che appartiene alle case di inizio secolo scorso: l’odore del legno di faggio, il vago sentore di umido dei muri spessi, il fruscio dei tubi dell’acqua a vista, la luce dorata e abbagliante che entra dalle altissime finestre, il crepitio lieve del parquet flottante. Abbandono il poco bagaglio inspirando a pieni polmoni e mi lascio cadere a peso morto, ad angelo, in centro alla sala. Con gli occhi chiusi, come un novello Ulisse sulla spiaggia di Itaca, s respiro l’odore di casa.

E dopo molto, troppo, tempo una felicità irrequieta e danzante si mischia al sangue e trotterella allegra giù dalle arterie e su per le vene. Senza pensieri e coi piedi leggeri la vita è finalmente luccicante e facile. Stappo il mio spumante rosé me ne godo un bicchiere e invito poi qualcuno a finire il resto. La felicità ha un odore più buono se c’è qualcuno – magari a sua insaputa – che ne condivide un pezzo. Nessuna delusione, nessun tradimento, nessuna pugnalata al mondo mi farà mai ricredere in merito.

Ho nuovamente un posto, un posto senza ricordi, da chiamare casa. Un attaccapanni dietro alla porta dove lasciare le scarpe e appendere l’armatura e la cotta di maglia. Pochi metri quadri dove poter lasciare correre liberi e nudi i brandelli d’anima superstiti.

(Ho avuto alcuni compagni di viaggio in questi metri. Non tutti si sono accorti della strada, della fatica o delle buche. Devo loro una birra, se non hanno già avuto lo spumante.)

C’è un principio d’ironia
Nel tenere coccolati
I pensieri più segreti
E trovarli già svelati
E a parlare ero io
Sono io che li ho prestati

(Elisa – gli ostacoli del cuore)

 

Digressione

11.1 – 6 Polaroid dallo scambio iniquo” o 10 anni di immeritata vita a credito

E siamo a 15 anni di vita a credito

Vite da panda

il 19 Giugno 1999 T. vola da un p30 sui massi sottostanti, all’Artesinera.

Ho un migliaio di istantanee impresse nella mente di quei giorni e dei giorni precedenti. Impresse a fuoco, indelebili… Roba che più o meno spesso mi si ripresenta davanti agli occhi, per ricordarmi lo scambio iniquo che avvenne quel giorno. Ma cominciamo dal principio.

Qualche settimana prima io, N. e M. organizziamo una punta in Artesinera per fare un sopralluogo e valutare se fosse possibile fare la giunzione tra Artesinera e Bacardi. Al mondo ci sono grotte e grotte. Grotte in cui passeresti il resto della tua vita a gingillarti tra pozzi e strettoie e grotte che ti mettono addosso l’ansia e la paura. E l’Artesinera decisamente ti fa sentire a disagio.  Prima Polaroid: me e N. fermi alla partenza di un pozzo a mangiare lamponi. Mi guardo con orrore le mani sporche di succo di lampone…

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Digressione

11 – Cherchez la femme, ou l’homme

Abbiamo tutti le nostre necessità. Tra queste esiste quella di avere una persona accanto, per un tutta la vita, un ora, un secondo. Al netto delle necessità fisiche ovvie, c’è quella piccola esigenza spirituale che ti prende la notte, di concentrare quell’ultimo pensiero cosciente su qualcuno.

Così tutti cercano qualcuno. Spesso anche quelli che qualcuno affianco ce l’hanno già, ma che ormai è – per quanto fisicamente vicino – lontano anni luce da lì. E spesso quel qualcuno che cerchiamo è immaginato, sognato, ricordato… ma soprattutto ignaro.

C’è qualcuno che asserragliato nella sua fortezza inespugnabile sogna l’amore che lo strappi dalla sua postazione. Sogna e sogna forte e mentre sogna scaglia cannonate a tutto ciò che osa bussare al portone. Vorrei amarti ma non posso. Potrei amarti ma non voglio. E il cumulo di cadaveri nel fossato si estende.

Ci sono altri che corrono dietro a chi scappa. Più scappi, più si ossessionano sul come e sul perché il loro presunto amore non sia corrisposto. Cercano le situazioni più improbabili, gli esseri più sfuggenti, evanescenti, instabili. Sono punti di accumulazione del caos. Poi se l’oscuro oggetto del loro desiderio si quieta e si doma, improvvisamente l’interesse scompare. Ti amo perché fuggi, fuggo perché mi ami. Un gran consumo di suole e di energie.

Alcuni poi cercano qualcuno che li faccia brillare. Amano sé stessi, sempre e soprattutto e hanno bisogno di una platea. Per loro l’altro è la fonte di stima e di amore che costantemente massaggia il loro ego con un balsamo di lacrime e sangue.  Ti amo perché attraverso te amo meglio me stesso. Dorian Gray gli faceva una pippa.

C’è chi corre dietro al fascino di qualcuno che gli è inacessibile. Perché è completamente diverso, perché è mortalmente più intelligente, più strano o semplicemente perché a sua volta sta correndo dietro a qualcun altro. Corre e corre, si straccia e si umilia senza rendersi conto – o peggio, pur rendendosi conto – che non ce n’è ed è assolutamente improbabile che in futuro ce ne sia. Corre rincorre, e intanto grida ‘Guardami! io sono qui! Ti prego guardami!’. Ti amo perché mi stracci l’anima.  Poi prima o poi a qualcuno tocca sempre pulire…

Qualche altro avrebbe qualcuno accanto, ce l’ha, e forse va bene. Ma gira in caccia lo stesso per quel piccolo brivido che lo/a faccia sentire vivo/a. Una notte, una ora, un minuto di faville per sentirsi ancora parte del gran gioco di caccia alla volpe che muove il mondo, anche se in teoria di quel gioco non può, non dovrebbe più far parte. Amami perché sono vivo, io amarti non posso.

Gli ultimi sognano. Dal loro carcere, dal carcere che si sono costruiti sognano. Sognano un amore passato che li ha resi felici e oramai si è dissolto. Stanno alla finestra e guardano con aria mesta un futuro che non vedono. Non cercano neppure, vorrebbero essere cercati e strappati alla loro infelicità, e visto che nessuno ti cerca se non ti rendi cercabile restano lì, mesti. Ti amo perchè mi hai amato. E l’amato/a spesso è in Jamaica da un po’, dove si è ampiamente consolato a botte di canne, Mojito e mulatte/i.

Prendete un po’ di elementi a caso,  metteteli in un gruppo più o meno chiuso. Mescolate bene e poi con entomologica pazienza guardate innescarsi la caccia all’uomo (o alla donna). Vedrete assedii, attacchi e cannonate, sangue, lacrime e fughe, castelli e prigioni. Un piccolo universo che scatena la più grande e cruenta guerra possibile. Vi sembrerà di avere davanti una di quelle piccolo biosfere da comodino, in cui la vita si autoalimenta dal niente per anni.

io sono la classica persona
che ama solo quando soffre
o quando sente più vicino l’abbandono.
E sento qualcosa che ci unisce
destino fatale e ineluttabile
come un legame
tra la vittima e il carnefice.
Allora, cosa chiedi di meglio?
Se a te piace farmi male…
Legami le mani
legami con doppi nodi all’anima
porta la mia vita
a correre da qualche parte e stancala
solo mi farai felice
se sarai crudele con me
e se sono prigioniero
io mi sento libero.

Questo gioco delle parti
prevede la tua fuga
e il mio aspettarti
ci porta dentro
una spirale interminabile.

(Mario Venuti – Crudele)

 

 

Stato

10 – Vertigine

Mi capita spesso.

Cammino sino sul bordo del baratro, metà dei piedi nel vuoto, e, con gli occhi socchiusi, guardo il vuoto. Assaporo il brivido assurdo che altalena tra l’orrore di cadere e la meraviglia del lanciarsi, senza sapere esattamente cosa sperare o pregare.

Uno strapiombo in montagna, una scogliera a picco sul mare, un pozzo di decine di metri in grotta, una nuova avventura, un cambiamento, un nuovo progetto lavorativo, gli occhi cangianti e imperscrutabili di qualcuno… sono tutte vertigini che amo assaporare a lungo prima di decidere se fare un passo nel vuoto o retrocedere.

Poi, preferisco – in genere – provare a volare: con le ali di un nibbio a volte, con quelle di Icaro, altre.

Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? Ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura. (Milan Kundera)