A diciott’anni ho passato un estate in montagna in compagnia di mia nonna. Lei leggeva libri sotto l’ombrellone sull’ampio terrazzo che è stato il teatro di gran parte della mia vita alpestre, io, all’ombra del muro, tentavo inutilmente di studiare fisica. Non avevamo un bel rapporto io e la fisica. A tutt’ora, non siamo diventate amiche.
In quelle lunghe giornate di giugno, tra studio, cavalli e scorrazzate a perdifiato su e giù per la valle, ho conosciuto mia nonna. Era una donna ormai stanca degli anni, rigida e austera a cui la vita aveva riservato più di una cattiva sorpresa. Eppure era ancora solida e decisa, una donna forte. Mi raccontava di una madre (mia bisnonna) fredda e distante al limite del crudele, delle zie che amava molto, del suo lavoro di tintrice di bottoni, degli amati fratelli morti, entrambi in guerra. E mi raccontava di mio nonno, Amerigo, morto quando era ancora troppo giovane e con due figli adolescenti da crescere. Con la morte di mio nonno, i ricordi si fermavano, anche se la vita era continuata a lungo. Ricordo la luce e il sorriso che aveva quando mi raccontava del suo Amerigo, che io non ho mai conosciuto.
Era una donna strana mia nonna, un po’ ruvida (da buona piemontese) e con probabilmente tanti sentimenti sotto quell’armatura di metallo che si portava appresso. Forse un po’ mi somigliava, forse un po’ somiglio io a lei. Anche a me dicono che sono strana, strana e buffa, sicuramente non austera.
Un giorno, tornando da cavallo, trovai un biglietto sulla scrivania, in bella luce. Aprii la busta, e lessi le poche righe scritte con la calligrafia un po’ stentata dei vecchi:
E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta.
Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore.
Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta.
Avevo letto il libro e sinceramente l’avevo odiato. L’avevo trovato melenso, stucchevole e infinitamente uterino. Presi il biglietto, ne archiviai il senso attribuendolo a un rigurgito di sentimentalismo di una vecchia stanca e lo usai come segnalibro per gli studi.
Quel biglietto, negli anni, è diventato il ricordo simbolico di mia nonna, della donna che avevo conosciuto il quel periodo. Della persona che guardava con tolleranza e divertimento quella nipote troppo viva e troppo energica che percorreva il mondo come un tifone, di corsa, senza guardare cosa lasciava indietro.
Qualche mese fa ho preso quel biglietto tra le mani, lo ho aperto e riletto, dopo 21 anni. Sull’altro lato, che non avevo mai voltato, ho trovato poche parole
Il giorno in cui dovrai fare una scelta difficile siediti e aspetta. Poi alzati, vai e non ti voltare indietro.
Mi sono seduta. Ho aspettato dei mesi. Poi mi sono alzata e ho preso la mia strada, senza voltarmi.
Si dice che i morti continuino a vegliare sui loro cari chissà come.